Non in Danimarca da anni in vetta alla classifica del benessere e l'Italia è al 47esimo posto. E ad essere felicemente sani si impara da piccoli, come spiega Il nuovo metodo danese per educare i bambini alla felicità a scuola e in famiglia (Newton Compton) che sarà presentato domani (ore 18 alla Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi a Roma). È il secondo volume della psicologa e giornalista Jessica Joelle Alexander, americana, 42 anni, capelli biondi e occhi blu, marito danese, due figli di 9 e 6 anni alle elementari nella caotica comunità romana.
«Sembra difficile ma è facile. In pillole: abbracci e coccole per far calare l'ansia, niente compiti a casa fino alle medie, lunghe ricreazioni all'aria aperta, test trisvel della felicità, protocolli per elaborare i lutti, ore dedicate al dialogo in classe, sociogrammi per individuare le dinamiche di gruppo e affrontare così il bullismo in un'ottica di collettività e non di problema individuale».
Eppure lei, nonostante già parlasse quattro lingue, non aveva intenzione di imparare il bambinese. Poi cosa è successo?
«Ero la tipica figlia della standardizzazione scolastica americana. Poi però in Danimarca ho visto come erano sereni quei bambini, felici e rispettosi. Sembravano robot, ma ho studiato i loro metodi educativi e funzionano».
Da dove si comincia?
«I bambini hanno pari dignità con gli adulti, vengono trattati con rispetto e sincerità. E, sa? Piangono meno, non interrompono i discorsi, non sono maleducati. Niente nomignoli, ma calma e ascolto. Parlare di tutto, ci sono libri sulla morte per bimbi di tre anni, e quando si parla mai dall'alto in basso, ma alla loro altezza».
Lei ha educato così i suoi figli?
«Il mestiere di genitore è quello più difficile, replichiamo i modelli dei padri e dei nonni. Ad esempio l'iperprotezione dei più piccoli: stai attento, ti fai male, copriti. In Danimarca si danno coltelli anche a bimbi di tre anni, si insegna loro ad usarli, ad essere autonomi, ad avere fiducia in se stessi. L'educazione culturale e religiosa hanno fatto di noi un computer settato in un modo. Diciamo che mi sono buttata».
Buttata nell'acqua gelata, scrive di quando ha deciso di parlare di sesso a sua figlia
«Assurdo che qui non ci sia l'ora di educazione sessuale e che negli Usa ci sia ma per l'astinenza. I nostri ragazzi sono bombardati dal sesso e i canali che frequentano non ne danno un'idea sana. E allora perché non glielo spieghiamo noi? È stato difficile, soprattutto usare un linguaggio appropriato, ma ora mia figlia se ha delle domande viene da me».
Un cambiamento in famiglia. E a scuola?
«Bisogna togliere le etichette. Prendiamo i bambini iperattivi: hanno bisogno di muoversi. In Danimarca li fanno sedere su delle grandi palle. E poi ogni 45 minuti, via all'aria aperta. E invece qui e negli Usa la prima cosa che si taglia è la ricreazione. Il corpo è importante, non è la macchina che tiene la testa, è dove sentiamo le emozioni. Così è fondamentale abbracciarsi. Scioglie l'ansia, si è più felici e si impara di più».
Scrive dell'importanza del corpo
«C'è il rispetto dell'altro. E poi il bullismo non è un fatto individuale ma l'effetto della gerarchia del gruppo. Spesso il bullo è uno che vuole far parte del gruppo. Si cerca di ricreare l'empatia e arrivare allo Hygge, ovvero allo stare bene. Magari con tante candele accese».
Dica la verità: conoscendo la realtà italiana, non le pare di parlare di Utopia?
«Assolutamente no, lo abbiamo fatto in qualche scuola di Roma ma il mio sogno è estenderlo il più possibile. I ragazzi hanno bisogno di parlare. E sono da subito più felici».
Ma che cos'è la felicità per lei?
«Non essere ossessionati dall'idea di felicità. Mi piace più pensare al benessere di cui fanno parte anche i momenti no».
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