Tumori, pochi interventi nei piccoli ospedali del Lazio: «Così aumenta la recidiva»

Oltre la metà delle operazioni si concentra in quattro strutture romane

Tumori, pochi interventi nei piccoli ospedali del Lazio: «Così aumenta la recidiva»
di Giampiero Valenza
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Domenica 5 Maggio 2024, 07:00

Ci sono quattro ospedali nel Lazio che, più di altri, sono al centro della lotta ai tumori. In queste strutture avvengono più della metà degli interventi chirurgici per la lotta al cancro. Stando ai dati del Piano nazionale esiti del Ministero della Salute, la parte del leone la fa il Policlinico Gemelli. Nel solo 2020 si sono contati 5.269 interventi dei 18.548 dell’intero Lazio (il 28,41%). E quest’ospedale è in testa per i tumori al cervello, al colon, al retto, al fegato, alla mammella, all’ovaio, al pancreas, allo stomaco, alla tiroide, all’utero e all’esofago. Al secondo posto della classifica generale c’è l’Istituto Regina Elena (10,21% del totale), primo per gli interventi di cavo orale e laringe, rene e vescica. A seguire, l’Umberto I (con il 7,93% dei casi trattati in sala operatoria) e il San Giovanni (con il 6,9%).

LE PRIORITÀ

In sostanza la chirurgia oncologica laziale è concentrata in (poche) grandi strutture.

E, dall’altra parte, ci sono diverse piccole realtà che fanno interventi che, se va bene, avvengono una volta al mese. Fanalino di coda è l’ospedale di Bracciano, che ha contato nel Pne 2021 sei operazioni nell’arco di un anno: uno per un paziente con un tumore allo stomaco e sei per il cancro al colon. Segue Tivoli, che però si è fermato a diciannove: undici al colon, uno al retto, quattro alla prostata, due allo stomaco e uno alla tiroide. E poi l’Idi con 22 interventi in un anno (quindi, circa due al mese). Sono gli ospedali della città metropolitana e delle province del Lazio a trovarsi nella parte bassa della classifica: tra questi, Colleferro, Cassino, Terracina, ma anche Ostia, Formia, Frosinone, Rieti. Ieri sulle colonne del Messaggero l’oncologo Francesco Cognetti, coordinatore del Forum delle società scientifiche e dei clinici ospedalieri e universitari italiani nonché presidente di Foce, la confederazione degli oncologi, dei cardiologi e degli ematologi, aveva sottolineato la necessità di uno sviluppo più omogeneo delle reti oncologiche in Italia. L’obiettivo è basato su un principio semplice: i migliori esiti per i pazienti ci sono lì dove c’è esperienza, dove il personale si trova continuamente, in pratica tutti i giorni, davanti a casi clinici sì complessi ma legati, comunque, a una stessa patologia. E così cala il rischio delle recidive. «Ci sono poche strutture che hanno una maggiore concentrazione di casi e poi c’è un numero enorme di ospedali che si trovano sotto gli standard minimi indicati dalle evidenze scientifiche internazionali - spiega Cognetti - Questi lavori dimostrano che i tumori devono essere trattati chirurgicamente solo in istituzioni dove ci sono volumi sufficienti. Da questo dipende l’andamento della prognosi». Lo dice la scienza, quindi, che serve un sistema diverso. Sono sotto il minimo stabilito dalla letteratura scientifica 19 ospedali che fanno operazioni di cancro della mammella, 25 di cancro al colon-retto, 15 per quello alla prostata, 14 per quello al pancreas, 12 per il fegato, 16 all’ovaio. Bene il polmone: interventi in sette ospedali, tutti sopra il minimo. Ma anche alcuni Istituti che si trovano al vertice hanno pochi volumi di interventi quando si tratta di alcune operazioni, come l’Irccs Regina Elena sotto la quota per colon retto, pancreas, stomaco ed esofago. «Quando parliamo di tumori parliamo di patologie che negli ultimi anni hanno avuto una enorme miglioramento della prognosi: sono aumentate le persone che sopravvivono più a lungo, quelle che guariscono e sono aumentati i pazienti che, seppur con metastasi, hanno un’aspettativa di vita superiore rispetto a quanto avveniva quindici o venti anni fa. Per lottare contro i tumori il primo percorso da seguire è quello legato agli stili di vita corretti che riducono l’incidenza dei casi di circa il 40%. Poi c’è la diagnosi precoce che avviene soprattutto grazie agli screening. Terzo pilastro è legato alla precocità di inizio del trattamento chirurgico. Quarto e ultimo punto è la capacità di offrire al paziente il massimo dei trattamenti combinati con le sinergie di tutti i diversi specialisti».

«Ci sono grandi ospedali che hanno tutto al loro interno e altri che invece dovrebbero essere messi in rete con gli ospedali principali, con un sistema di “hub e spoke” - conclude Cognetti - Serve quindi una rete con ospedali principali (gli hub) che possono essere definiti anche sulla base di aree vaste che devono avere tutti i servizi e le specialità. Poi altri minori (gli spoke) che contribuiscono al successo. Quando un paziente si presenta in queste ultime strutture deve trovarsi davanti a un board che possa prenderlo in carico e che metta in connessione la struttura hub con quelle spoke. Nel Lazio di hub ne servono quattro o cinque, ma devono avere al loro interno tutti i servizi clinici necessari, ma anche la componente di ricerca, dei laboratori, una potenziata patologia molecolare, oltre che strutture per le cure palliative. Questo, purtroppo, ancora non succede. Se venti anni fa tutto questo non era così indispensabile, oggi col miglioramento dei risultati è invece un percorso necessario e obbligato perché da ciò dipendono tante vite umane».

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